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Autodeterminazione dei popoli contro inviolabilità delle frontiere. Riflessioni....!

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Sulla base del diritto all'autodeterminazione, nel corso del XX secolo, i popoli sottoposti a dominio coloniale reclamarono e ottennero l'indipendenza, seppure talvolta a caro prezzo.
Quasi tutti...il Sahara occidentale, ex colonia spagnola ricca di giacimenti di fosfati, per esempio, è ancora in attesa dell'indipendenza da quando cioè, al ritiro della Spagna finì, dopo convulse lotte, sotto il controllo del Marocco. Il tutto senza l'assenso delle Nazioni Unite e senza aver sentito in merito il parere del popolo sahrawi che vi abita (o vi abitava, visto il numero di rifugiati che da molti anni si trovano in Algeria). Può essere interessante sapere che l'ONU ha sul posto una missione militare e civile dal 1991 , la "MINURSO", che costa decine di milioni di dollari l'anno. Mentre lo scopo principale di detta missione, l'organizzazione di un referendum sulla sorte del Sahara occidentale, appare essere un miraggio, purtroppo i soldi che richiede sono veri...e non è la missione ONU più datata e tantomeno la più costosa.
I moti indipendentisti del XIX secolo, di fatto, si ispiravano al principio di autodeterminazione. Anche nei famosi "Quattordici punti" del Presidente USA Woodrow Wilson vi possiamo rinvenire tale principio. E lo si può ritrovare in altri documenti, ma così è anche per quello del rispetto delle frontiere che sembra andare sempre di pari passo con il primo seppure appaiano uno in contrasto dell'altro. Da un lato sembra che gli stati debbano riconoscere il diritto dei popoli a costituirsi in entità separate, ma allo stesso tempo gli stati avrebbero diritto a far di tutto per non subire modifiche delle proprie frontiere così come non dovrebbero intraprendere azioni dirette a cambiare quelle altrui.
Capita, tuttavia, che un popolo che ambisca all'indipendenza, possa ricevere aiuto dall'estero, che può consistere in un sostegno economico, o nel garantire asilo agli indipendentisti in fuga, o nel mettere a disposizioni basi oltre confine o altro, comunque, di fatto, in violazione del principio di intangibilità delle frontiere.
Si può anche arrivare ad un intervento militare straniero, in genere giustificato come un'operazione attuata per scopi umanitari di fronte ad un eccesivo ed ingiustificabile uso della forza da parte del governo locale. A volte è vero a volte meno...
E' difficile comunque pensare che le costose azioni di sostegno a movimenti indipendentisti, anche se consistenti solo in invii di armi e denaro, non siano motivate dalla speranza di un qualche futuro tornaconto.
Si potrebbe disquisire sul concetto di popolo e/o di etnia, ma, semplificando, se una raggruppamento umano si ritiene nettamente distinto da quelli a lui vicini, per storia, lingua, tradizioni ed altro, e pensa che sia suo interesse costituirsi in stato indipendente, la risposta, in un sistema democratico, dovrebbe essere quella di sedersi intorno ad un tavolo per esaminare con calma la problematica, vedendo se sia più conveniente per tutti, invece dell'indipendenza, una qualche forma di autonomia, oppure, se proprio non si trova un accordo, indicendo un referendum il cui esito andrebbe poi pacificamente rispettato da tutti.
Così, purtroppo, non va sempre. Gli stati talvolta invocano il diritto all'intangibilità delle frontiere. Mettono quindi addosso ai richiedenti l'indipendenza l'etichetta di "ribelli" o di "banditi" , accusandoli magari di essere manovrati da non meglio specificati agenti esteri e cercano di risolvere il problema come se fossero di fronte a delinquenti o peggio.
Capita che, quando una delle parti sia convinta di poter risolvere i problemi facendo ricorso alla forza invece che al dialogo, l'altra risponda allo stesso modo. La situazione si avvolge così in un continuo di sempre maggiore violenza. Nella spirale di reciproche accuse, può persino diventare arduo dire dove sta il torto e dove la ragione, anche perché, ad un certo punto, altri stati, ritenendo aver interessi nell'area, cominceranno a sostenere una o l'altra parte.
Ad esempio, sul finire del secolo scorso, sulla base del principio di autodeterminazione, considerate anche le discriminazioni e le violenze di cui erano stati oggetto (ma ne commisero anche loro sui serbi), fu ritenuto che i kosovari avessero diritto a costituire un loro stato. Una parte della comunità internazionale, tuttavia, considera tutt'ora il Kosovo una provincia della Serbia e l'intervento militare che portò al distacco del Kosovo, un atto di aggressione in spregio dell'intangibilità delle frontiere. Sembra proprio che ognuno sposi il principio che più gli aggrada...
Capita anche che uno stato, per annettersi definitivamente un territorio occupato o tacitare le nascenti istanze indipendentistiche, cerchi di modificarne la composizione etnica, portandoci a vivere cittadini provenienti da aree lontane, gente cioè che non ha alcun legame con quel territorio. Col tempo gli equilibri della regione saranno mutati e anche un eventuale referendum, che fosse alla fine concesso, vedrebbe vincenti, ovviamente, i sostenitori del mantenimento dei legami con la "madre patria".
Può apparire un metodo meno traumatico, ma certo veramente democratico non è.
Per curiosità si può ricordare che c'è anche chi fa il contrario, chi impedisce cioè ai profughi e ai loro discendenti di rientrare in quella che era la loro terra, dalla quale erano fuggiti, o erano stati cacciati, a seguito di guerre, in quanto il loro ritorno modificherebbe la composizione etnica dello stato in modo inaccettabile, dal punto di vista dello stato che ha ora il controllo del territorio...non certo di coloro che stanno nei campi profughi...
Ancora oggi, anche in Europa, molti vorrebbe cambiare i confini di vari stati, inseguendo un sogno (o un'utopia?) di indipendenza.
Per esempio, molti scozzesi vorrebbero staccare la Scozia dal Regno Unito, lo stesso accade in Spagna, nella regione di Barcellona e nei Paesi Baschi e in Ucraina. Quest'ultima purtroppo è scossa da una sorta di guerra civile. Prima si è assistito al distacco della Crimea che, sembra evidente, la Russia considera parte del proprio territorio e dove la maggior parte degli abitanti desidera vivere sotto Mosca. Inutile nascondersi che la cosiddetta "comunità internazionale", a parte formali prese di posizione, non ritenga effettivamente possibile la restituzione all'Ucraina di quella penisola. A ciò si è aggiunto, però, che anche una parte dei residenti in alcune province orientali, sembri aspirare ad unirsi alla Russia. Purtroppo, ancora una volta, al dialogo è andato a sostituirsi l'uso della forza. Realisticamente bisogna comunque ammettere che è forse inevitabile che i rilevanti interessi in gioco muovano altri stati a prendere posizione a favore o contro le istanze indipendentistiche e quindi a sostenere attivamente l'una o l'altra parte.
Finché prevalgono metodi pacifici quali negoziati, elezioni e referendum i problemi sono, tutto sommato, gestibili in modo concordato e senza più gravi conseguenza (esempio di ciò l'ordinata separazione della Cecoslovacchia in Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca nel 1993), se si passa all'uso delle armi tutto diventa più difficile e costa enormi sofferenze alle popolazioni.
A dire il vero, ogni tanto, si insinuano nelle rivendicazione di indipendenza o nelle pretese che uno stato vanta su zone controllate da un altro, anche considerazioni di carattere storico-geografico senza effettivo legame con la volontà di chi ci vive .
Le isole Falkland (sotto la Gran Bretagna dal 1833), ad esempio, sono considerate dall'Argentine parte del proprio territorio. Quest'ultima scatenò anche guerra contro la Gran Bretagna nel 1982 e la perse. Certo, il conflitto era motivato anche dal desiderio della giunta militare al potere all'epoca di rinsaldare il proprio vacillante controllo sul paese, ma senz'altro la maggior parte degli argentini (e forse dei popoli di lingua spagnola in Sud-America) consideravano fondata tale pretesa, anche se basata solo su non univoche argomentazioni di carattere storico e sull'evidente maggiore vicinanza delle Falkland all'Argentina che al Regno Unito. E questo anche se non c'era, e non c'è, dubbio che la quasi totalità degli abitanti di quelle lontane isole, desideri restare suddito di Sua Maestà britannica.
Situazione simile a Gibilterra (possedimento del Regno Unito dal 1713); la Spagna ritiene suo diritto riportarla sotto la sua sovranità, ma gli abitanti, in più di un referendum, hanno sempre espresso il desiderio di restare britannici.
Il contrasto tra diritto all'autodeterminazione ed il principio di inviolabilità delle frontiere, come visto, è molto frequente. A seconda di cosa gli convenga, gli stati ora appoggiano un principio ora l'altro. Talvolta cercano di mediare, com'è ovvio che sia in politica, ma in assenza di regole chiare, stringenti e accettate da tutti, la situazione non è destinata a cambiare.
Sarebbe molto bello se tutti rifuggissero dall'uso della forza affidandosi, con buon senso e volontà di pace, alle arti del negoziato, ma al momento questa è solo una speranza, nulla più.

Pa.Ri.

Pillole di Storia: La Rivolta di Eureka

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minieraSi tratta di un sanguinoso episodio della storia dell'Australia, poco sconosciuto da noi, ma ritenuto di rilevante importanza per l'evoluzione della democrazia in quel lontano Paese.
Eureka è un sobborgo della città di Ballarat, nello Stato di Vittoria (l'Australia o "Commonwealth of Australia" è una federazione di sei Stati e due Territori) dove circa 150 anni orsono, il 3 dicembre 1854, si scontrarono minatori in rivolta e truppe regolari. A Ballarat , nel maggio 2013, è persino stato istituito un museo (il M.A.D.E. "Museum of Australian Democracy at Eureka) per ricordare l'evento che per Ben Chifley , ex Primo Ministro australiano, rappresentò la prima, vera, affermazione della determinazione degli australiani nell'essere essi stessi padroni delle loro scelte politiche. Anche il famoso scrittore Mark Twain elogiò la rivolta come un evento tra i più importanti nella storia di quel Paese.
Ad Eureka, nel 851, era stato scoperto un giacimento di oro. Questo aveva portato numerosi coloni a gettarsi in quella che può senz'altro essere definita come una "corsa all'oro" . Condizioni di vita dure e possibilità di effettivo arricchimento scarse, costituivano già di per sé elementi in grado di generare malcontento, ma la scintilla che portò alla ribellione fu l'obbligo di pagare pesanti tasse mensili di concessione mineraria anche senza che venisse estratto del metallo. I minatori poi non potevano acquistare le terre su cui lavoravano né avevano alcun modo per rappresentare alle autorità i loro problemi e necessità. Più volte i lavoratori furono sull'orlo della rivolta armata a causa degli aumenti delle tasse; talvolta detti provvedimenti furono ritirati all'ultimo minuto proprio per il timore di scontri, ma con il passare del tempo il clima andò peggiorando. I minatori ritenevano di essere oggetto di un ingiusto sfruttamento e , in generale, di non essere trattati con equità dalle autorità. Nell'ottobre 1854 la frettolosa assoluzione di una persona sospettata dell'omicidio di un minatore portò ad una prima rivolta. I lavoratori, convinti che il giudice fosse stato corrotto, incendiarono l'albergo di proprietà del presunto assassino che per mettersi in salvo dovette fuggire dalla città. Il successivo arresto di alcuni minatori con l'accusa di aver preso parte all'incendio dell'hotel, nonché altri episodi di vessazione subiti, portarono i minatori a protestare.
Nel novembre 1854 più di 10.000 minatori si riunirono a formare la Lega per le Riforme. Molti, tra i capi della lega, avevano un passato di militanti nel movimento "cartista" britannico che chiedeva migliori condizioni di vita per i lavoratori e, tra l'altro, il diritto di voto per ogni uomo, che il voto fosse segreto e che tutti gli elettori, indifferentemente dal loro ceto sociale, fossero eleggibili in Parlamento. Petizioni in tal senso furono presentate a più riprese in Gran Bretagna (quella del 1842 raccolse oltre tre milioni di firme) e il loro mancato accoglimento dette a sanguinosi scontri di piazza. I minatori chiedevano giustizia per i loro compagni in prigione e la riparazione di altri torti subiti, ma , prima di tutto, di poter dire la loro circa le tasse che gli venivano imposte ritenendo che subire il peso del fisco senza che loro rappresentanti avessero voce in capitolo equivalesse a vivere sotto una tirannia. Nelle settimane successive furono portati avanti negoziati con il Governatore dello Stato di Vittoria. Questi però non intendeva in realtà venir loro incontro, ma solo prendere tempo per far giungere sul posto le truppe che aveva chiesto in rinforzo.
Un primo scontro ebbe luogo il 28 novembre; nessun morto, ma vari feriti. Il giorno successivo 12.000 minatori, visto l'atteggiamento delle autorità, decisero di bruciare pubblicamente le licenze minerarie. Il Governatore ordinò l'arresto dei promotori dell'atto di insubordinazione, ma questo causò ulteriori scontri. La rabbia era tale oramai che la maggioranza dei minatori si convinse che, con i soli negoziati, non sarebbero mai riusciti ad ottenere il riconoscimento dei loro diritti. Tale Peter Lalor, uomo deciso e carismatico, fu quindi eletto a capo della Lega. Il 1° dicembre i rivoltosi innalzarono una bandiera bianca e blu (conservata nel museo M.A.D.E.) riproducente la costellazione della "Croce del Sud" e , riuniti attorno ad essa, giurarono di "difendere i loro diritti e le loro libertà".
Fu quindi eretta un'improvvista barricata intorno alla bandiera posta in cima ad una collina e un gruppo di minatori, a turno, vi si pose a presidio. Per un paio di giorni nulla accadde fino a che, domenica 3 dicembre, mentre la gran parte dei lavoratori riposava nei propri accampamenti e solo pochi si trovavano a difesa della collina, 276 militari e poliziotti presero d'assalto la barricata dei minatori uccidendone 22 e ferendone un'altra dozzina, ma l'esatto conteggio non fu mai possibile in quanto chi sfuggì all'arresto (tra cui Peter Lalor) si nascose e , se ferito, cercò di farsi curare all'insaputa delle autorità. Tra i poliziotti e i soldati si contarono 6 caduti. Fu imposta la legge marziale e istituito un processo contro 13 minatori, tra i circa 120 fermati, tuttavia la notizia del massacro, diffusasi rapidamente nel Paese, portò larga parte dell'opinione pubblica a condannare con decisione l'operato delle autorità. Tra i 13 mandati a giudizio vi erano americani, irlandesi, olandesi, scozzesi... e c'era anche un italiano, tale Raffaello Carboni che più tardi pubblicherà un dettagliato resoconto degli eventi. E' un tale personaggio questi che meriterebbe, solo per lui, un articolo... magari in futuro. Il processo si chiuse rapidamente con la liberazione dei minatori. Il Governatore fu rimosso dall'incarico e l'odiata tassa mensile di concessione mineraria abolita e sostituita con un ridotto importo annuale legato al quantitativo di oro estratto. Infine Peter Lalor , che nella battaglia era rimasto ferito ad un braccio poi amputatogli, fece una brillante carriera politica giungendo ad essere eletto membro dell'Assemblea Legislativa dello Stato di Vittoria ed a ricoprirvi l'incarico di Speaker (Presidente)... non male per uno che subito dopo gli scontri aveva sulla testa una taglia di 400 sterline dell'epoca.
Pa.Ri

Maori contro Moriori: una strage tra fratelli in Oceania

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maori1933: Muore a 49 anni Tommy Solomon, forse l'ultimo uomo ad avere avuto ambedue i genitori appartenenti alla tribù dei Moriori, ma questo magari vi dice poco, torniamo quindi un po' indietro nel tempo.
Nel novembre 1791 William Robert Broughton, comandante del veliero di "Chatham" di Sua Maestà (inglese) , scoprì delle isole a circa 800 Km a est della Nuova Zelanda che presero il nome della sua nave. Ovviamente, come da costumi dell'epoca, ne rivendicò subito il possesso in nome della Regina, poco curandosi del fatto che le isole non fossero disabitate, ma ci vivessero pacificamente circa 2000 persone a cui, di diventare sudditi britannici, poco o nulla importasse. Per fortuna degli isolani gli europei trovarono di scarso interesse quelle piccole isole vulcaniche e solo dei cacciatori di balene le usarono come base d'appoggio per le loro spedizioni. Gli indigeni, tutto sommato, poterono continuare a fare la loro solita vita; l'unico problema fu la diffusione di alcune malattie prima sconosciute e "importate" dai bianchi, ma che non ebbero gli effetti catastrofici che avevano avuto in altre zone raggiunte dalla civiltà europea. I veri guai, per i tranquilli Moriori, apparvero verso la fine del 1835 quando due navi, con a bordo circa 5000 di Maori, giunsero nell'arcipelago. I Maori, un fiero popolo guerriero di origini polinesiane (probabilmente era arrivato in Nuova Zelanda intorno agli anni 1000 – 1200 d.C.) che tanti grattacapi dava agli europei, saputo dell'esistenza delle isole Chatham e che erano abitate da gente che quasi non conosceva la parola "guerra" non ci pensarono molto su e decisero di invaderle. All'epoca dei fatti raccontati, inoltre, i Maori erano ancora dediti al cannibalismo.
I Moriori accolsero amichevolmente i nuovi arrivati e , visto che a causa della lunga traversata erano stanchi e affamati, li rifocillarono. Appena riprese le forze i Maori non esitarono ad attaccarli e farne strage. Gli diedero la caccia ovunque e quelli che non uccisero (e mangiarono) li resero loro schiavi. Tragedia nella tragedia è che i Moriori erano in realtà Maori anche loro, solo che nessuno se ne ricordava più . I Moriori, in altre parole, discendevano da un gruppo di Maori che intorno al 1500 aveva lasciato la Nuova Zelanda (non scoperta ancora da Abel Tasman che vi arriverà nel 1642). Secondo le leggende Moriori nelle isole Chatham vivevano altre tribù prima del loro arrivo, tribù con cui si sarebbero fusi. La scelta di vivere pacificamente fu loro imposta, con ogni probabilità, dalle limitate dimensioni delle isole che compongono l'arcipelago e dalla scarsità di risorse disponibili. Attualmente i discendenti dei Moriori , organizzati in associazione, stanno cercando di riportare alla luce le tradizioni di quell'antico popolo e la sua pacifica cultura.

Pa.Ri.

Cinesi contro arabi, "la Carta contro la Pergamena" la battaglia del Fiume Talas

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FotoartTagliaferriTranquilli ! non sto parlando di una guerra in corso o recentemente combattuta...di certo la Repubblica Popolare Cinese non vede di buon occhio il fondamentalismo religioso islamico, ed è difficile darle torto, almeno in questo, ma i fatti di cui brevemente leggerete risalgono a molti anni orsono essendo accaduti intorno al 751 d.C. . In Cina era al potere l' Imperatore Xuanzong della dinastia Tang mentre nel mondo arabo si era da poco affermato il Califfato Abbaside con la vittoria di Abul l- Abbas al-Saffah su Marwan II degli Omayyadi.
I due imperi entrarono in conflitto per il dominio delle ricche regioni dell'Asia centrale e , in particolare, per il controllo della parte della "Via della Seta" che da lì passa. Si trattava (e in parte lo è ancora) di una fondamentale via di comunicazione e di scambi commerciali tra est ed ovest. In passato, inoltre, l'Impero Tang si era trovato in guerra con il regno ( anche detto "Impero") del Tibet e, anche se al momento la situazione su quel fronte era apparentemente tranquilla, era chiaro a tutti che la pace non sarebbe durata per sempre. Il controllo del centro del continente asiatico era pertanto di rilevante importanza per l'Impero cinese come per gli arabi.

Pillole di storia. Ultimi ad Arrendersi

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guerraItalia, Caserta, 29 aprile 1945 , viene firmata la resa delle truppe tedesche e della Repubblica Sociale Italiana ;
Francia, Reims, 7 maggio 1945: I plenipotenziari tedeschi firmano la definitiva resa del III Reich ;
...ma in Asia si combatte ancora.
Giappone, Tokyo, 14 agosto 1945:
dopo molti giorni di riflessione e di riunioni inconcludenti, l'Imperatore Hirohito impone al Governo di accettare la richiesta di resa avanzata dagli Alleati. Parte dei ministri non condividevano tale decisione, ma obbedienti si inchinarono alla volontà del Capo dello Stato. Non che avessero molta scelta, la Marina Militare era quasi del tutto distrutta e l'Aeronautica, non più in grado di contrastare gli aerei avversari, si era ridotta a svolgere quasi esclusivamente missioni suicide.

Fiamme Eterne.....o quasi…

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infernoL'espressione "fiamme eterne" , ai credenti in particolare, richiamerà alla mente un imprecisato luogo di sofferenza dove taluni pensano che dovranno essere espiati i peccati commessi in vita. Potrà anche far pensare alle fiamme sempre accese nei monumenti che rappresentano l'imperituro, grato ricordo dei vivi nei confronti di coloro i quali hanno compiuto l'estremo sacrificio di sé per la Patria. Ma non è di questi tipi di fiamme che desidero accennare, ma a fuochi, talvolta spettacolari, che non ne vogliono sapere di spegnersi. Talvolta si tratta di enormi incendi sotterranei che si verificano all'interno di miniere di carbone. Sia in Cina che in India, paesi con vasti giacimenti di tale minerale, eventi del genere sono tutt'altro che rari e il danno economico ed ambientale dovuto a questi disastri sotterranei è notevole; si parla di milioni di tonnellate di carbone che ogni anno vanno, letteralmente, in fumo, ma c'è un caso in particolare che ritengo emblematico.

L’ultimo dirigibile

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dirigibileI dirigibili rappresentano l'evoluzione delle mon¬golfiere che in Francia, nel XVIII secolo, aveva¬no cominciato ad innalzarsi nel cielo. Nel XIX secolo era ancora la Francia all'avanguardia nella costruzione delle "macchine volanti più leggere dell'aria", dirigibili o mongolfiere che fossero, ma il secolo successivo vide il progressivo affermarsi, nel settore, della Germania. La società tedesca Zeppelin costruì 129 dirigibili "LZ" dal luglio 1900 al tragico 6 maggio 1937, quando l' LZ 129 "Hindenburg", il più grande e lussuoso mai messo in servizio, in pochi secondi si trasformò in una palla di fuoco mentre stava eseguendo le manovre di attracco a Lakehurst, nel New Jersey (USA). Era stato costruito nel 1935 e copriva con regolarità la rotta tra Germania e Usa.

Disastri nella corsa verso lo spazio 2 - navicella Soyuz 11

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navicella29 giugno 1971, ore 23 circa (GMT-Tempo Medio di Greenwich-) la squadra di recupero si avvicina rapidamente alla navicella "Soyuz 11" regolarmente atterrata in Kazakhstan, ma quando viene aperto il portellone per farne uscire gli occupanti scopre che dentro vi sono solo i corpi senza vita dei tre astronauti. Tutto nell'abitacolo è apparentemente in buone condizioni e nessuna bruciatura o ferita è visibile sui corpi. I sistemi automatici avevano riportato a terra quella che era oramai solo una bara volante. Cosa era successo?

Disastri nella corsa verso lo spazio

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spazioIntorno alla metà di questo mese dovrebbe cadere nell'Oceano Indiano la sonda spaziale russa Phobos-Grunt. Un amaro fallimento per l'Agenzia Spaziale di Mosca visto che si dice che sia costata più di 160 milioni di euro e circa 15 anni di lavoro. E' la terza sonda che cercano di mandare su quel satellite di Marte. Le altre due, lanciate alla fine degli anni '80 non ebbero neppure loro molta fortuna; la prima si perse durante il viaggio tra la Terra ed il pianeta rosso, la seconda riuscì a scattare solo qualche foto poiché invece che restare in orbita intorno a Phobos si schiantò sulla sua superficie. Il 23 dicembre dell'anno appena terminato era fallito anche il lancio di un satellite per telecomunicazioni civili e militari, è caduto in Siberia e ad Agosto, sempre del 2011, un razzo Progress aveva fallito l'aggancio con la Stazione Spaziale Internazionale (ISS)... diciamo che non è un bel periodo per l'Agenzia Spaziale russa.

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