L'opinione di Filippo Giunchedi – Professore associato di Diritto processuale penale e avvocato
Oggi 30 dicembre 2022 entra in vigore il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, più comunemente noto come Riforma Cartabia.
Una gestazione lunga che, da ultimo, ha portato ad un posticipo rispetto alla data originariamente fissata per l'entrata in vigore – lo scorso 2 novembre –, conseguenza di carenze strutturali, soprattutto informatiche, che avrebbero impedito il regolare svolgimento dell'attività richiesta dalle molteplici modifiche e dai relativi adempimenti procedurali.
Epperò, l'esigenza di raggiungere gli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (P.N.R.R.) per accedere ai fondi dell'Unione europea non consente di attendere ancora. Quindi, da oggi siamo di fronte ad un nuovo modello di accertamento dei reati. Il numero degli articoli del codice di procedura penale modificati e di nuovo conio è impressionante, quasi duecento, benché all'apparenza le differenze non paiono incidere sull'ideologia, dato che l'impianto normativo è costruito su quello originario, il codice Vassalli entrato in vigore il 24 ottobre 1989.
Fermarsi a questo dato sarebbe fuorviante, però, posto che, proprio nel segno dell'impegno europeo, la giustizia cambia volto, l'ennesimo per questo codice, facendo evaporare le lodevoli finalità che si proponeva il legislatore di quel lontano – non solo cronologicamente, ma soprattutto ideologicamente – 1989. Quel modello di processo puntava ad un cognitivismo fondato sul contraddittorio delle parti per formare la prova, consapevole che dal confronto tra gli antagonisti si possa attingere alle conoscenze di cui sono depositari testimoni, consulenti tecnici, periti e parti stesse.
Il limite di un simile metodo euristico è quello dell'importante dispendio di risorse, tanto che veniva escogitata la soluzione: la maggior parte dei processi dovevano celebrarsi con metodologie accertative differenti e meno dispendiose, ricorrendo ai procedimenti semplificati come il giudizio abbreviato che rinuncia proprio al contraddittorio per la formazione della prova o il patteggiamento della pena che, addirittura, costituisce una rinuncia all'accertamento in virtù di un accordo sulla pena da applicare all'imputato.
Nel corso degli anni gli incentivi verso queste forme di giustizia "sommaria" – ove quale "premio" per l'imputato che rinuncia ad un processo "virtuoso", lo Stato è disposto a forti sconti in termini di pena – sono stati incrementati, perdendo di vista l'obiettivo originario.
Oggi, con il modello introdotto dalla Riforma Cartabia, questo scivolamento verso succedanei di un accertamento efficace ha subito una forte accelerazione puntando con decisione verso forme di a-cognitivismo nel segno dell'efficienza della giustizia penale quale passaggio obbligato per il raggiungimento degli obiettivi del P.N.R.R. che prevedono, entro il 2026, la riduzione del 25% della durata media dei tre gradi del processo penale anche grazie alla sua transizione digitale e telematica.
Un altro punto di forza è rappresentato dall'incentivare forme di giustizia riparativa, fondate in buona parte sull'emenda del presunto reo e sulla conciliazione con la vittima del reato.
Insomma, una metodologia di accertamento estremamente ridimensionata, soprattutto se si pensa ai buoni propositi del 1989, in gran parte immediatamente sacrificati verso forme più snelle e meno garantistiche, ammantate dal principio secondo cui la contropartita per un accertamento sommario possa essere costituita da una pena ridotta.
Oggi, invece, si punta a forme di riparazione e conciliazione tendenti a ridurre l'accertamento, in vista di incentivi sempre maggiori. È sufficiente far riferimento al "premio" per l'imputato condannato con il giudizio abbreviato, stimolato a non impugnare in virtù della diminuzione di un sesto della pena irrogatagli.
Insomma, un sistema giudiziario che si pone quale obiettivo principale quello di "far presto" possibilmente con l'impiego di risorse minime... L'aspetto della qualità della verifica della responsabilità dell'imputato viene relegato ai margini.
Rimane irrisolta una questione: ma è proprio vero che efficienza del processo equivalga a giustizia?
Filippo Giunchedi